”Quaeque inhonoratae, non et dicemur inultae!“
“Potranno dirmi senza onori, non senza vendetta!”
Comincia con queste parole il nostro racconto. Parole che uscirebbero bene dalla bocca beffarda della nostra dirimpettaia che, passati trent’anni con un marito avaro e fedifrago, recupera finalmente una prova del tradimento su cui basare la sua giustificata vendetta.
A pronunciare la frase è invece una delle dee più giovani del pantheon greco, quella che fin da infante è stata disciplinata dalla mamma a punire con massime pene le pecche dei mortali: Artemide.
E allora, cominciamo come si conviene.
C’era una volta, nella lontana terra di Calidone, un re di nome Eneo…
Sembrerebbe l’inizio di una storia a lieto fine se non fosse che si tratta di un re profondamente distratto. Un giorno infatti, per ringraziare gli dèi di un fortunato raccolto di stagione, Eneo offrì le primizie delle proprie messi a Demetra, parte del vino a Dioniso e dell’olio ad Atena; terminati poi questi sacrifici, passò ad onorare gli altari degli altri dèi campestri. A tutti fu reso omaggio, tranne ad Artemide che fu dimenticata.
La figlia di Latona non esitò un attimo e, senza dare a Eneo neppure il tempo di un tempestivo ripensamento, mandò un cinghiale, grande più di qualsiasi toro mai visto, a devastare i campi e le greggi. “Di fuoco brillavano gli occhi iniettati di sangue, ispide sul collo possente si ergevano setole rigide come una palizzata di lunghe aste piantate al suolo, con rauco sfrigolio scorreva lungo tutto il petto la bava ribollente, le zanne simili a quelle di un elefante indiano; fiamme eruttavano le fauci, che di vampate bruciavano le foglie”. La gente subito si rifugia nelle proprie case, pregando che questo demonio si fermi al più presto.
Le preghiere non giungono alle orecchie degli dèi ma a quelle del giovane e valoroso principe Meleagro che, radunata una scelta schiera di eroi, decide di dare la caccia alla smisurata creatura. Ad accompagnarlo ci sono, tra gli altri, Giasone, Teseo, Piritoo, i gemelli Actore e Fileo, Telamone, il padre del grande Achille, Iolao della Beozia e, infine, Atalanta di Tagea, vanto dei boschi del Liceo, con i capelli raccolti senza ornamenti in un unico nodo, la faretra tintinnante appesa alla spalla sinistra e l’infallibile arco, stretto sempre nella sinistra. Non appena la scorge, Meleagro avverte una morsa al petto e il fuoco del desiderio divampare per la ragazza. Ma, ahimè, quello non era il tempo per accadimenti d’amore.
La caccia è aspra e dolorosa: molti degli eroi cadono sotto i colpi della fiera, senza che questa, per molto tempo, sia persino scalfita. Solo Atalanta, sfruttando la velocità per cui è nota, riesce a scagliare una freccia dal valoroso arco e a configgerla sotto l’orecchio dell’animale, macchiandone di sangue le setole.
Meleagro vede il colpo per primo e con le parole “meritum feres virtutis honorem” (“di questa impresa tu porterai l’onore”) rivolte alla fanciulla, si scaglia rapido all’inseguimento. Tornato vittorioso dal duello con il cinghiale, il principe Calidonio ne offre la pelle ad Atalanta per condividerne la gloria, ma in tutto il resto del gruppo si accende veloce il livore. A fermare la mano della donna che si accinge a raccogliere il suo premio sono i fratelli Plessippo e Tosseo, zii materni di Meleagro, che per questo gesto li giustizia.
Mentre si accinge a sacrificare doni agli dèi, due notizie giungono nello stesso momento alla regina Antea e, come di prassi, una è buona e l’altra no: il figlio Meleagro ha vinto sul cinghiale riportando pace nei campi ma i suoi amati fratelli sono morti. Affranta, riempie la città dei suoi lamenti e muta il colore delle sue vesti per il lutto; ma quando le salme arrivano al suo cospetto con il nome di chi li ha uccisi, il suo cordoglio si tramuta in sete di vendetta.
Conviene ora rivelare un fatto riguardante la prodigiosa nascita di Meleagro. Quando la madre Antea era ancora prostrata dai dolori del parto, ricevette la visita delle tre Moire che, dopo aver predetto virtù di straordinaria forza e coraggio per il neonato, posarono sul fuoco un ceppo con le parole “tempora eadem lignoque tibique, o modo nate, damus” (“Durata uguale di vita assegnamo al ceppo e a te, che ora vedi la luce”); pronunciata la profezia e ancora filando il filo del destino, le Parche si allontanarono mentre Antea si affrettava a togliere il tizzone dal fuoco e a riporlo, accuratamente spento, all’interno di uno scrigno che fosse solo a lei accessibile. Da allora il ceppo era rimasto nascosto e, così preservato, aveva mantenuto Meleagro in vita. Ma in questo giorno nefasto, Antea, accecata dal rancore per l’assassinio dei fratelli, lo scova sotto strati di polvere e, ordinato di accendere il braciere, pregusta il castigo del figlio per essersi macchiato le mani del suo stesso sangue.
Quattro volte è sul punto di gettare il ceppo tra le fiamme, quattro volte si trattiene. Sorella e madre combattono in lei, trascinando il suo cuore in direzioni opposte. Come una nave in balia del vento e di una corrente che lo contrasta, così la regina si dibatte tra impulsi avversi e, di volta in volta, placa e riaccende la sua ira. Ma se è vero quello che anche le più vicine tragedie ci tramandano, solo con un’altra morte si paga una morte e lentamente Antea diviene miglior sorella che madre e con mano tremante, volgendo gli occhi per non guardare, getta in mezzo alle fiamme riluttanti il legno funereo che, mentre brucia, sembra lanciare un gemito.
Lontano e ignaro, Meleagro sente le membra seccarsi e si duole di non essere caduto sotto le zanne del cinghiale ma di doversi spegnere di quella morte ingloriosa; e mentre con un ultimo lamento invoca il nome dell’amata, il corpo si trasforma in cenere, quella stessa cenere bianca che ora ricopre il focolare, di fronte a cui anche la madre Antea giace ormai senza vita con un pugnale confitto nel petto.
Con la vendetta di un dio cominciava la storia e con quella di un mortale si compie. La morte del triste eroe Meleagro risarcisce e rallegra il cuore di Artemide che vede così finire la stirpe dell’ingrato Eneo; ancora una volta, le colpe dei padri trovano risarcimento nelle sofferenze dei figli.
Per la storia che lo riguarda, Meleagro diviene ben presto uno dei temi preferiti per ornare le fronti dei sarcofagi e delle urne, dove l’eroe viene raffigurato ormai morto durante il trasporto del suo corpo o, molto più raramente, durante la caccia. Proprio da queste prime immagini gli artisti del Rinascimento attinsero la gestualità del mostrare la morte, nell’assoluto abbandono delle membra che decreta, senza alcun dubbio, l’essere cadavere.
La morte di Meleagro – Sarcofago III secolo – Musei Capitolini
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