Il “disabitato”, come è stata descritta efficacemente la zona del Laterano, nonostante i suoi autorevoli edifici, si è mantenuto pressoché tale attraverso i secoli e, nonostante le sistemazioni di fine ‘500 e dei primi decenni del ‘700, ancora oggi non si può certo definire una zona “centrale”.
Essa è stata una di quelle più investite dagli interventi umbertini quando Roma, ormai capitale, cambia per sempre il suo volto. Di certo acquistò in viabilità e in pulizia: le strade ortogonali più ordinate e le facciate dei palazzoni, tutti rigorosamente in stile neo-rinascimentale, anelano a una dignitosa – e monotona – uniformità. Ma ecco che, proprio in una strada vicino alla piazza di S. Giovanni in Laterano, troviamo un relitto, uno di quegli edifici che si sono salvati dall’operazione di maquillage urbanistico che, fuori da ogni ironia, ha distrutto per sempre la fisionomia di una città, unica in Italia, fatta di ville e giardini, di piccoli e grandi edifici diversissimi tra loro per epoca e stile.
Il Casino Giustiniani-Massimo-Lancellotti con il suo superstite giardino sono infatti quel che resta della sfarzosa villa del marchese Vincenzo Giustiniani, che si estendeva fin sulla piazza del Laterano. Villa passata poi ai Massimo all’inizio dell’800 e ai Lancellotti a metà ‘800. Questi ultimi, nel fatale 1871, vendettero il vasto parco come area edificabile, il giardino attuale ne è un lacerto. Infine, nel 1885, anche il monumentale portale del muro di cinta della villa venne ceduto allo Stato e venne risistemato nel 1931 come ingresso alla villa Celimontana al Celio, dove lo vediamo ancora oggi.
Tornando ai Massimo, fu Carlo, dopo aver apportato diverse modifiche alla Villa, a chiamare per le decorazioni interne un gruppo di artisti molto originali. Religiosissimi, vivevano in comunità, portavano capelli lunghissimi e dei mantelloni neri. I romani li chiamavano “Nazareni” (c’è da scommettere, con una doppia zeta) e così sono conosciuti. Si rifacevano puristicamente alla pittura italiana del periodo aureo, a Raffaello e Michelangelo in primo luogo, ma anche a Perugino e alla pittura quattrocentesca dell’Italia centrale, Beato Angelico, Benozzo Gozzoli,… Originali ma pienamente all’interno del movimento romantico di rivalutazione dei poemi cavallereschi e del Medioevo cristiano in generale.
Abbiamo avuto la fortuna di visitare l’edificio con i suoi affreschi con Giuseppe Garrera che ci ha illustrato la fantasmagorica resa pittorica dei tre poemi maggiori della letteratura italiana.
Una sala è dedicata alla Divina Commedia di Dante, una all’Orlando Furioso di Ariosto e l’ultima alla Gerusalemme Liberata di Tasso.
In quella dedicata alla Divina Commedia lavorò Joseph Anton Koch, che era un autentico “fan” di Dante Alighieri e ne sapeva a memoria interi canti. Riuscì in un intento ambizioso e sintetico: rappresentare in uno spazio tutto sommato ristretto tutti gli espisodi maggiori delle tre cantiche.
La seconda sala è dedicata all’Ariosto, non a tutto il Furioso ma ad alcuni degli episodi d’amore e di follia, ed è dipinta da Julius Schnorr. In essa le citazioni da Raffaello e Perugino sono quasi letterali.
Si arriva infine alla sala con la Gerusalemme Liberata di Tasso, dipinta da Friederick Overbeck, protestante convertitosi al cattolicesimo. Fu lui il primo a portare i capelli lunghi e a favorire il nomignolo dato al gruppo di pittori.
Sullo sfondo delle vicende d’amore tra Tancredi e Clorinda e Rinaldo e Armida, quel che interessa Overbeck è proprio il contenuto religioso del poema. Lo esprime molto bene sul soffitto in cui campeggia in trono la Gerusalemme Liberata in persona, allegoria che sembra una via di mezzo tra una sibilla di Raffaello e una Virtù quattrocentesca.
Tutto questo raccontato da Giuseppe con la sua fantastica cifra, incalzante e accattivante insieme, che permette di meglio vedere e comprendere.














