| Visite guidate

Foto della Visita alla Mostra “Munch. Il grido interiore” – 7 Marzo 2025

Con un’affluenza di pubblico di dimensioni umane e con la giusta calma abbiamo potuto immergerci nella pittura di Edvard Munch, guidati da Federica Di Folco la cui empatica e sapiente guida ha facilitato l’approccio alla pittura forse più emotivamente sconvolgente del periodo a cavallo tra fine ‘800 e prima metà del ‘900.

La mostra “Munch. Il grido interiore”, dopo la tappa milanese, è giunta a Palazzo Bonaparte con le sue cento opere dal Munch Museet di Oslo, cui il pittore, nato a Löten nel 1863, vissuto a Oslo e morto a Ekely nel 1944, ha lasciato quasi tutta la sua produzione.

“Malinconia”, ci accoglie all’ingresso sotto le sembianze della sorella Laura che soffriva di crisi psichiche, e di un autoritratto del 1882, quando Edvard frequentava la scuola di Arti e mestieri di Oslo. Il primo di una lunga serie che costella questa coinvolgente esposizione, insieme agli altri temi famosi: la Donna-vampiro, l’Angoscia, la Gelosia, il Tradimento, la Morte. Temi declinati in modi diversi, o per meglio dire con sfumature diverse di tormento e con uno straordinario sperimentalismo tecnico. Perché Munch, che fu a Parigi a due riprese ma non l’amò e non ne fu amato e poi a Berlino dove, pur nello scandalo suscitato da una sua personale, trovò un ambiente più adatto al suo mondo interiore, affronta lo stesso soggetto in decine di versioni allo stesso tempo riconoscibili e diversissime: olio, pastello, matita, litografia. Tutte ma davvero tutte di un livello eccelso per espressione e qualità artistica. Per cui risulta abbastanza incomprensibile lamentarsi del fatto che non ci sia “L’urlo” perché c’è: c’è una sua splendida versione incisoria, accompagnato a due versioni di “Angoscia” e “Disperazione”, anch’esse litografiche, con le folle mute rovesciate su un primo piano che ci investe con la loro fragile, dolorosa e così vicina umanità …

Al primo piano dunque lo scenario familiare di lutti, soprattutto quello della amata sorella Sophie, soggetto de “La fanciulla malata”: capelli rossi radi, profilo perso e totale resa nelle spalle inermi, immagine insostenibile e pure ripetuta in cinque versioni e diverse varianti grafiche, alla ricerca di una catarsi impossibile; di solitudini: “Inger sulla spiaggia”; di difficili (impossibili) rapporti con il femminile: le varie “Madonne”, distruttrici e generative al tempo stesso; la messa in scena dell’esito drammatico del suo fatale rapporto con Tulla Larsen: “La morte di Marat”, opere di certo debitrici del post-impressionismo e precorritrici dell’espressionismo ma del tutto innovative e personali.

Al secondo piano lo scenario della crisi e della sua risoluzione. Nel 1908 viene ricoverato per una crisi di origine nervosa in una clinica di Copenhagen in cui si autoritrae in una serie memorabile di scatti fotografici. Sono esposti insieme alle opere tra gli anni ‘10 e 40 del ‘900, in cui i rossi violenti e i gialli sulfurei delle opere precedenti si alleggeriscono in atmosfere più in linea con i principi salutistici seguiti dal pittore in una ripresa di vitalità. Corpi che si immergono nell’acqua come nell’”Uomo al bagno” del 1918, e soprattutto il futuristico “Sole” del 1909-11, parte di un progetto per l’Aula Magna dell’Università di Oslo.

Infine i toccanti ultimi autoritratti in cui non si può fare a meno di pensare a un’esistenza lunghissima, tormentata, forse mai felice ma sempre assolutamente autentica.

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