Appuntamento al solstizio d’inverno per la mostra monografica su Fernando Botero accompagnati da Federica di Folco.
A un anno dalla sua scomparsa Palazzo Bonaparte ha deciso di ospitare una importante retrospettiva dell’artista colombiano, celeberrimo per le figure rotonde e voluminose. Egli stesso ci racconta la genesi di questa sua cifra così personale. Era il 1956, una notte si era attardato a lavorare nel suo studio in Messico e stava disegnando un mandolino. Il foro di risonanza, al primo abbozzo, gli venne molto piccolo con il risultato che l’intero strumento risultava più largo del normale. La forma voluminosa dello strumento musicale fu una sorta di illuminazione, l’embrione di una poetica della dilatazione che l’artista estese poi alle figure umane e animali facendola evolvere, via via rimodellandola ma senza mai abbandonarla.
Da giovane Fernando Botero viaggiò molto in Europa e in particolare in Italia, dove studiò con passione le opere dei maestri rinascimentali, analizzando la monumentalità delle figure alla ricerca di una cifra stilistica personale che non fosse puramente imitativa (per quello riteneva ci fosse ormai l’arte fotografica).
La mostra si apre dunque con un dipinto-omaggio a Mantegna, alla famosa Camera degli Sposi nel Palazzo Ducale di Mantova, in particolare alla scena in cui è rappresentato Ludovico Gonzaga nell’atto di ricevere una lettera dal suo segretario di corte.
Percorrendo le sale, molti sono i rimandi a opere ben riconoscibili di Velázquez, Raffaello, Piero della Francesca.
Poi ci sono temi e soggetti molto vari: dalla vita quotidiana alla politica, dalla religione alla mitologia, con un sottotesto frequente di critica implicita alla società e ai suoi costumi espresso con sottile umorismo. Filo conduttore di tutte queste opere è la ricerca di una forma di espressione che riesca a catturare l’essenza delle emozioni umane in figure che, anche grazie ai colori vividi e a una tecnica pittorica impeccabile, esprimano vitalità e forza.
Il pittore che molto ha viaggiato ha però sempre portato con sé il bagaglio dalle sue radici latinoamericane, inserendo nei dipinti dettagli della cultura colombiana. In una delle ultime interviste gli domandarono che cosa gli sarebbe piaciuto fare ancora nella vita, dopo tanto peregrinare e la risposta fu: “imparare a dipingere perché l’aspetto meraviglioso della pittura è che nessuno può dire di saper dipingere”. Affermazione in fondo molto somigliante a quella celebre di Picasso, il suo primo maestro.
Ringraziamo la nostra guida Federica di Folco che ci guidato con grande bravura alla scoperta dell’idea di un artista banalmente conosciuto come “pittore delle donne grasse” e che invece, come in fondo tutti gli artisti, ha seguito una via personale di trasformazione della realtà, consegnandocene una versione giocosa e mai banale.