Abbiamo avuto la fortuna di visitare la mostra dedicata ad Antonio Donghi a Palazzo Merulana guidati da Franco Cenci, artista e storico dell’arte, che a Donghi ha dedicato non solo la tesi di laurea, ma anche e soprattutto la sua curiosità di studioso e una buona dose di empatia.
Da principio, per collocare visivamente il tempo in cui visse e lavorò l’artista, Franco ha fatto una introduzione sulla Roma post unitaria e tra le due guerre. Donghi, nato nel 1897, ha venticinque anni al momento della Marcia su Roma, quella città che sotto il fascismo incrementò notevolmente il numero degli abitanti (più per la spregiudicata politica di accorpamenti territoriali che per gli effetti dei provvedimenti demografici..) e che dopo il disastro della Prima Guerra Mondiale (cui Donghi partecipò rimanendone segnato) aspirava al benessere e alla tranquillità.
Questo doppio registro di adeguamento ai bisogni sentiti nella società e di critica – anche se mai esplicita – al regime scopertamente autoritario, è presente nei dipinti a confronto, secondo le intenzioni del curatore Fabio Benzi, e come Franco ci ha in dettaglio mostrato. Così si trovano accanto, nello stesso salone, opere della scuola romana, Mafai, Capogrossi, Cavalli, Trombadori estranee all’estetica roboante della cultura fascista ma quasi sempre immerse in una dimensione intima, non problematica, spesso con scene di vita romana, scorci di strade, piazze silenziose. La svolta che portò Donghi a quello che si definisce “realismo magico” si colloca tre il ’22 e il ’23 dopo la conoscenza delle opere di Ubaldo Oppi, ispiratore di quel tipo di pittura soprattutto di ritratto, allo stesso tempo fissa e sfuggente, che sarà anche la cifra di Donghi per tutta la vita e nella quale si ritrovano echi della pittura antica dove l’imitazione del reale si mescola all’astrazione: Piero della Francesca, tanto per fare un nome. Ma, come ci spiegava Franco, molto probabilmente la svolta ha anche una ragione dolorosamente biografica: dopo la dipartita della sorella Bianca, per lui una seconda madre, Donghi ha bisogno di afferrare e trattenere l’essenziale, il poco che gli è rimasto.
E così si situano nel tempo, dalle Lavandaie del ‘22, alla Gita in barca del ‘31, dai ritratti di persone e luoghi, come il paesaggio urbano che vedeva dal suo studio in via del Lavatore sempre del ‘22, al Cacciatore del ‘37, opere simili a se stesse, asciutte, silenziose ed elusive come il loro autore. Opere in cui, come diceva Franco, la parola “ritratto” mostra tutta la sua ambiguità semantica…
E infine, nell’ultima sala, quel Mussolini a cavallo, tronfio (ma non troppo nel pennello di Donghi) tutto di nero vestito, prelude al secondo disastro novecentesco, ammonendoci che i tempi, ahinoi, ritornano.