Corto-circuito visivo: espressione usata spesso per descrivere quel fenomeno che si produce, alla Galleria Borghese, quando si mettono a confronto, spesso in modo ravvicinato, opere della collezione permanente e opere di mostre temporanee. Quella ora in corso, che abbiamo avuto ieri la fortuna di vedere guidati da Federica Di Folco, si intitola opportunamente “Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma”, e si muove appunto intorno alla capacità del pittore fiammingo di infondere la vita alle opere scultoree che studia, copia, rielabora. Esegue disegni a matita e a sanguigna di una perizia esecutiva e di una originalità stupefacenti, in cui la copia trasmuta in un originale, nel seme del dipinto che verrà, in cui insomma, assistiamo al passaggio dal marmo alla carne. Il dialogo con le opere di Bernini non potrebbe chiarire meglio questo aspetto e, davanti al pittore che parte dal disegno di scultura per rappresentare l’essere vivo, con i suoi rossori, pallori, opalescenze… e lo scultore che rende pittorico il marmo e nella pietra finge figure vive pare di assistere a un corto-circuito al quadrato. Del resto, tra il Bernini dell’ “unità delle arti visive” e il Rubens che oltrepassa programmaticamente i confini tra le arti, c’è davvero molto in comune. Da Roma, a Venezia, a Mantova, artista e diplomatico, consigliere ed ascoltato esperto, richiestissimo ed estremamente prolifico (anche grazie a una organizzata rete di aiuti specializzati), Rubens vede, registra ed elabora uno stile allo stesso tempo eclettico e riconoscibile, di una qualità pittorica superlativa, e grazie allo scandaglio delle fonti letterarie, inventa iconografie originali del mito e della religione.
Abbiamo ammirato il suo Adone dallo splendido corpo morente, quasi un Cristo assistito dalle Pie donne, il Seneca elaborato a partire dal Seneca Borghese, visto proprio a Roma, la Susanna, la cui posa è presa dallo Spinario dei Capitolini (o meglio da una sua copia cinquecentesca..)
Insomma, il suo pennello “furente” come fu quello di Leonardo (di cui copiò, facendola giungere fino a noi, la Battaglia di Anghiari) era al servizio della sua erudizione e questa miscela non comune ha dato vita a una pittura esemplare.
A ripensarci, una mostra bella, ben allestita (meglio di quella su Guido Reni, ma ci vuole poco…), che ha il pregio di ricostruire, a Roma, sotto l’ottica del dialogo tra le arti, l’attività di un artista del quale a Roma ben poco è rimasto, cruciale per il passaggio al Barocco e alla sua nuova, rivoluzionaria imitazione della Natura. Beninteso, sulle spalle dei giganti (la scultura classica, Michelangelo, la grande tradizione rinascimentale, romana e veneta). Dell’averci fatto apprezzare tutto questo dobbiamo ringraziare Federica, che ha arricchito la visita, oltre che con la sua ormai leggendaria capacità comunicativa e con la sua profonda competenza, mostrandoci ulteriori esempi a confronto, opere fortemente collegate ai temi di cui si parlava, ma che non erano in mostra.
Unico neo: l’incredibile assenza, a tutt’oggi, di un ascensore per disabili. Ce n’è uno in cui una carrozzina “normale” non entra e dunque la persona disabile dovrebbe “trasferirsi” in un’altra carrozzina, magari alzandosi “un attimo”. Oltre il danno, anche la beffa. Si dice che, dal momento che la Galleria ha delle (ovvie) difficoltà a eseguire modifiche nel corpo della struttura, si sta pensando di approntare un sistema esterno di accesso per le carrozzine. Peccato però che a quanto pare lo si stia pensando da più di dieci anni.