“Il largo Argentina era tenuto sgombro da cordoni di truppa dietro i quali una folla enorme si era riunita per assistere al passaggio del Duce”. È il 21 aprile del 1929 e la folla, trattenuta dalla “truppa” (!), sta assistendo all’inaugurazione del complesso archeologico di Largo Argentina.
È l’ultimo atto di una vicenda che inizia nel 1917 (ma ha radici ben più lontane, nei piani regolatori di Roma Capitale, con gli sventramenti di Corso Vittorio e via Arenula). E proprio da qui è iniziato il racconto di Emanuele Gallotta che, prima di entrare nel sito archeologico vero e proprio, ci ha descritto i paradossi e i compromessi, le attività di istituzioni e funzionari spesso in lite tra loro (tempora “non” mutantur…), addirittura un “cartello di sfida”, tra due dei protagonisti, il celebre Antonio Muñoz e il meno celebre ma meritevole Giuseppe Marchetti-Loghi. Per fortuna il duello non ci fu, nessuno si fece male e il dissidio si ricompose.
Certo, le quattro palazzine previste dopo le demolizioni nell’area non furono costruite e i templi sono salvi e ben leggibili, ma il risultato che abbiamo sotto gli occhi è un sito strano, una “voragine” in una piazza trafficata, davanti a un teatro, con autobus e macchine che ci girano intorno (salvo su un lato, quello di via dei Cesarini).
Noi, come tutti i romani, la vediamo ma non la conosciamo, e dunque siamo grati alla Soprintendenza (e alla Maison Bulgari che ha finanziato il lavori) per il nuovo percorso di visita che permette di avvicinarsi al sito in modo da poterne apprezzare molto bene le fasi (dalla fine del IV /inizio III a.C. al I d.C.), i livelli, le novità, le persistenze. Ma soprattutto siamo grati a Emanuele Gallotta per il racconto estremamente dettagliato – a tratti anche molto divertente – che ce ne ha fatto.
Lungo la passerella, comoda e accessibile, si vedono i quattro templi di età repubblicana, denominati A, B, C, D, la cui sequenza cronologica è in realtà C, A, D, B, (Feronia, Giuturna, Lares Permarini, Fortuna huiusce diei) le cui forme ripercorrono l’evoluzione dell’architettura romana: dal tempio etrusco-italico in tufo, all’introduzione di elementi dell’architettura ellenistica. Si apprezzano anche molto bene i diversi livelli: dalla terra battuta del primo piano di calpestio, al tufo e al marmo dei successivi pavimenti dell’area templare, rifatti più volte soprattutto quando un devastante incendio, nell’80 d.C., distrusse non solo quest’area ma tutto il Campo Marzio meridionale. Particolarmente interessante, nel tempio B, l’indizio dell’arrivo della fascinazione greca nell’ingenua ma sapiente scanalatura delle colonne di tufo e la successiva stuccatura, in modo da farle assomigliare a colonne di bianco marmo.
Infine le trasformazioni del Medioevo, in parte visibili nel tempio A: la chiesa di San Nicola de Calcarario, il cui nome ricorda le “calcare”, le fornaci in cui si cuoceva il marmo per farne calce, con la sua abside e gli affreschi del XII secolo. Questo lacerto ecclesiale è riaffiorato a seguito della demolizione della chiesa che vi era stata costruita sopra, San Nicola dei Cesarini, eliminata insieme ai vicini palazzi Acquari, Rossi, Cesarini, in quell’eterno esercizio di seppellimenti, distruzioni e disvelamenti così peculiare della nostra città.
Un piccolo antiquarium completa la visita, con una grande testa di divinità femminile, forse parte di un acrolito di Feronia, e altri frammenti, alcuni di grande bellezza.
In conclusione, una visita piacevolissima, benedetta dalla dea Fortuna huiusce diei (la Fortuna del giorno presente): nonostante le pessime previsioni e le grida di allarme non abbiamo aperto l’ombrello neanche un minuto, con buona pace di chi si è fatto dissuadere dal meteo.