L’epoca degli insulti sessisti non è del tutto tramontata ma alcune locuzioni un tempo gettonatissime non sono più molto usate.
La frase “è un’oca” per definire una persona di sesso femminile sciocca o superficiale ormai stona alle nostre orecchie e – se ci scappa – ci sentiamo fortemente (e giustamente) a disagio.
Anche perché l’oca tutto è meno che stupida. Starnazza, quello sì, e a volte a sproposito ma più spesso a proposito, come insegna la storia più famosa di tutte, quella delle oche del Campidoglio. È il 390 a. C., i Galli di Brenno assediano Roma. Nottetempo e silenziosamente tentano la presa del colle capitolino riuscendo a ingannare guardiani e cani, che non li odono. “Non ingannarono le oche, sacre a Giunone, dalle quali, nell’estrema mancanza di cibo tuttavia ci si asteneva” (Tito Livio, Ab urbe condita, V, 47).
Le oche dunque non erano sacre a una divinità minore ma alla signora degli dèi dell’Olimpo, colei che giunse alla cultura greco-romana già carica della forza di un mito femminile fortemente connotato in senso lunare. La Grande Madre, signora del cosmo, è triplice così come triplici ci appaiono il volto della luna e il ciclo della vita sulla terra: nascita, maturità e morte.
Così come una triplice natura riveste l’oca: celeste, terrena, acquatica…
Sebbene si possa confondere con i volatili affini della stessa famiglia delle Anatidee (anatra, cigno) forse è proprio un’oca selvatica, possente migratrice, quella che trasporta questa Venere Urania nel mondo oltre il mondo, regno dell’Amore ideale.
Un’oca simboleggia il dio della terra Geb, marito di Nut dea del cielo e padre di Osiride, Iside, Seth e Nefti. Un’oca è il geroglifico del suo nome e con un’oca sulla testa spesso viene raffigurato.
Dato che Geb/oca veniva considerato il signore della prosperità della natura, si prese a far annunciare la successione di un nuovo faraone da quattro oche selvatiche, lasciate libere, come benedizione di un regno lungo e prospero.
Ovidio, narratore supremo, racconta nel libro VIII delle Metamorfosi una storia d’amore bellissima. Due anziani coniugi, Filemone e Bauci, vivono insieme e in serenità il tramonto delle loro vite, facendosi amorevole compagnia. Sono poveri, hanno un piccolo orto e un’oca che trattano come una figlia. Un giorno arrivano a casa loro, sotto mentite spoglie, gli irrequieti immortali Zeus ed Ermes, che non sono stati ricevuti in case più ricche perché vestiti in modo estremamente modesto. I due coniugi invece li ospitano e offrono loro una modesta cena durante la quale si produce un prodigio: il vino riappare nei bicchieri svuotati rendendo così manifesta la presenza soprannaturale. Ma di cibo adatto non ce n’è più e allora Filemone fa per prendere l’amata oca, che – starnazzando – fugge da tutte le parti. Zeus, mosso a pietà (per una volta) impedisce il sacrificio e subito dopo i due vengono sollecitati ad allontanarsi dalla loro casa e a seguire gli dèi su un monte perché un diluvio sommergerà le case degli empi abitanti. Non la loro, ché hanno ospitato degnamente dèi a loro insaputa. Avranno un ulteriore, prezioso dono: non vedere la morte dell’altro e, dopo la fine, essere uniti per sempre sotto forma di tronchi intrecciati.
Non mancano di certo oche nelle vite dei santi, essendo la presenza degli animali un potente attivatore di narrazioni edificanti in cui funzionano da “spalla” al protagonista di turno, colorandosi di contenuti simbolici più o meno marcati.
San Cerbone visse nel VI secolo dopo Cristo. Nato nell’Africa settentrionale da genitori cristiani, fuggì per mare quando i Vandali invasero quei territori. Con lui c’erano alcuni compagni, tra cui l’arcivescovo Regolo. Una tempesta li spinse sulle coste della Toscana. Qui, alla morte di Regolo, divenuto vescovo, Cerbone si rese protagonista di svariati prodigi legati agli animali. Uno di questi riguarda le oche e ha un antefatto davvero curioso: Cerbone – probabilmente persona insonne – aveva l’ abitudine di dire la messa all’alba. I parrocchiani, evidentemente indispettiti, si rivolgono al papa. Cerbone viene convocato a dare conto di questa predilezione e, sulla strada per Roma, incontra alcune oche selvatiche, le ammansisce e le conduce con sé come dono per il papa (visto che era a mani vuote).
È il patrono di Massa Marittima e in molti rilievi che decorano la cattedrale intitolata al suo nome è raffigurato in compagnia di oche, e piccole oche grigie sono al riparo del suo manto in uno splendido polittico di Ambrogio Lorenzetti. Nel tempo sospeso dell’apparizione della madonna in Maestà le povere oche non hanno ancora incontrato il loro destino…
Anche San Martino di Tours ha un’oca nella sua storia. Un’oca un po’ indisponente, visto che segnalò – del resto che oca sarebbe stata ? – il nascondiglio dove si era cacciato per evitare di essere nominato a forza vescovo.
Però, a parte vetrate del XX secolo della chiesa a lui dedicata a Sarralbe e qualche santino, l’oca ha l’onore della scena solo in una pala di Lattanzio da Rimini, che però la ritrae più simile non tanto a un cigno ma a una cicogna (o alla peggio a un airone).
Cerbone e Martino, santi di autunno: nel calendario liturgico, l’uno si festeggia il 10 ottobre, l’altro l’11 novembre. Quest’ultima data indicava la fine dei contratti agricoli. Essi potevano essere rinnovati o no: in quest’ultimo caso i contadini erano costretti a “fare San Martino”, cioè traslocare. Gli altri potevano festeggiare e… mangiare l’oca, da cui il detto: “Chi no magna l’oca a San Martin, no fa el beco de un quattrin”.
Un po’ come succede all’asino con le sue molteplici significazioni, la vicinanza all’uomo, la facile domesticazione e la condivisione di spazi di vita, stride con il versante simbolico terrestre/celeste di questo volatile, denso e complesso.
Neanche il gioco dell’oca è esente da interpretazioni esoterico/cabaliste/teosofiche.
Certo, tutto il gioco è impostato sul tre, sui multipli di tre e su cicli di 7, in un percorso a spirale, e tutto questo è già più che sufficiente perché il gioco sia stato considerato la rappresentazione di un cammino iniziatico, con relativo superamento delle prove e premio finale. La consolazione è che tutto è basato sul caso, proprio come a volte sembra essere la vita.
Una zampa d’oca veniva usata dai costruttori di cattedrali come proprio marchio, un segno positivo di creatività e perizia nel costruire. Del resto si pensa che persino il cammino di Santiago abbia a che fare con le oche: in mancanza di altri ausili per ricavare, di giorno, la direzione da seguire, si usava il “camino das ocas” e cioè la direttrice Nord/Sud, usata dalle oche selvatiche quando migrano. Di notte si seguivano le stelle.
Un “cammino” con ali esperte in cielo, a zampa piatta sulla terra come quello delle amabili Guendalina e Adelina Bla-Bla negli “Aristogatti”.