La parola Italia fa pensare a un paese unito, sappiamo con quale sforzo, e quanto irrimediabilmente frammentato ancora sia.
Questa mostra, bellissima, ci riporta a una prima unità: quella nel segno di Roma, costata non solo sforzo ma conquista, prevaricazione e infine scambio e ibridazione, in un lungo passaggio cronologico che va dal IV al I secolo a.C. La frase da cui è tratto il titolo (“iuravit in mea verba tota Italia sponte sua”) dimostra come Augusto, nelle sue “Res gestae”, rivendichi l’adesione di tutti i popoli sotto il suo comando nell’ultima guerra civile, quella contro Antonio e Cleopatra.
Ma proprio la mostra ci racconta quante guerre hanno preceduto questa “spontanea” adesione. Scontri con popoli plurali, a volte antitetici per costumi, straordinariamente raffinati, anche quelli (Celti, Galli) a lungo considerati rozzi e barbari.
Proficuamente imitatori l’uno dell’altro: strepitosi gioielli d’oro a granulazione etrusca nella tomba di Nerka Trostiaia, ricca (e single) imprenditrice venetica, ceramiche daunie a imitazione di quelle greche ma con elementi specifici (quasi proto-barocchi) nel colore, nella composizione … insomma si parla di un mosaico di culture, ma è un mosaico fluido, attivo, il cui movimento si intreccia a quello di una potenza in espansione che le assorbe e le “unifica”, con patti, alleanze, conquiste, come nel caso della raffinatissima Taranto, che cadde nonostante l’alleanza con il re dell’Epiro e tutti i suoi elefanti …
Forse non c’è bisogno di prestiti clamorosi, forse è un merito della mostra che i prestiti siano dei tanti musei archeologici d’Italia i quali, fuori dalle rotte turistiche, sono dei grandi sconosciuti.
E sono delle perle, ovviamente. Il Museo Archeologico delle Marche ad Ancona (corona a lamine d’oro, splendida), il Museo Nazionale Atesino di Este (tomba di Nerka Trostiaia), quello di Potenza (episema con Taras, bronzo che sembra ceramica) … insieme ai giganti di Taranto e di Roma.
Dall’Archeologico della capitale proviene la statua bronzea del Pugile a riposo, il capolavoro “lisippeo”. Non si sa chi sia l’autore ma di Lisippo reca tutti i segni, primo fra tutti lo scarto subitaneo della testa. E poi porta i tanti segni del combattimento: le ferite varie, l’ematoma sotto l’occhio destro, insieme ai segni dell’affetto da cui era circondato: alcune parti sono lucide perché lo si accarezzava … un affetto che durava anche quando, non più in funzione l’edificio che lo conteneva, è stato sepolto.
Vale la pena di riportare di nuovo le commoventi parole di Rodolfo Lanciani, presente al ritrovamento. Era il marzo del 1885.
“Il più importante dato, mentre ero presente e seguivo la rimozione della terra nella quale il capolavoro giaceva seppellito, è che la statua non era stata gettata là, o seppellita in fretta, ma era stata nascosta e trattata con la massima cura. La figura, trovandosi in posizione seduta, era stata posta su un capitello di pietra dell’ordine dorico, come sopra uno sgabello e il fosso che era stato aperto tra le fondamenta più basse del tempio del Sole, per nascondere la statua era stato riempito con terra setacciata per salvare la superficie del bronzo da ogni possibile offesa. Sono stato presente, nella mia lunga carriera nell’attivo campo dell’archeologia, a molte scoperte; ho sperimentato una sorpresa dopo l’altra; ho talvolta e per lo più inaspettatamente, incontrato reali capolavori ma non ho mai provato un’impressione straordinaria simile a quella creata dalla vista di questo magnifico esemplare di un atleta semi-barbaro, uscente lentamente dal terreno come se si svegliasse da un lungo sonno dopo i suoi valorosi combattimenti”.
Una parola sulla nostra guida: Filippo Marini. A meno di non far resuscitare Ranuccio Bianchi Bandinelli, non potevamo averne una migliore, tutto qui.