Dioniso
Lunghe chiome scendono morbide sulle spalle rotonde, il corpo fanciullesco è armonioso, quasi femmineo: è Dioniso, il dio dalle origini tracie, il dio “straniero”, il cui culto si lega alla coltivazione della vite, al vino e all’abbondanza.
Secondo il mito, la nascita di Dioniso è legata alla tragica morte della madre Semele. Questa infatti era divenuta l’amante di Zeus e – quando già aspettava un figlio da lui – cadde nella trappola tesa da Era. Convinta da lei, Semele chiese a Zeus di mostrarsi con il suo autentico aspetto, quello di re dell’Olimpo. Zeus, avendo giurato di soddisfare ogni sua richiesta, fu costretto suo malgrado ad accontentarla. Semele era soltanto una donna, non una dea, e la sua natura mortale non le consentiva di sopportare il fulgore e la potenza dei fulmini di Zeus. Così, quando il re degli dei le apparve nella sua reale natura, la incenerì in un solo istante.
Poco prima che morisse però, con la velocità che lo caratterizzava, Ermes strappò il bambino dal ventre di Semele e lo cucì nella coscia di Zeus. Trascorsi tre mesi, la gravidanza fu portata a termine e Dioniso poté nascere. Dopo varie traversie, il piccolo venne affidato alla cure delle Ninfe che dimoravano sul monte Nisa, in Eliconia. Per proteggerlo dall’ira vendicatrice di Era, lo nascosero in una grotta nutrendolo di miele.
Fu qui che, secondo il mito, una volta cresciuto, Dionisio inventò il vino.
Ma Dioniso non era destinato a una vita tranquilla. Divenuto adulto, fu riconosciuto da Era che indusse in lui la pazzia. Da allora Dionisio iniziò il suo vagabondare folle in giro per il mondo. Arrivò fino in India diffondendo i segreti della coltivazione e della produzione del vino.
Nel suo viaggio lo seguiva un corteo scomposto di Menadi, Satiri e Sileni. Se i Satiri, sempre impegnati in sollazzi amorosi, rappresentano la fecondità e l’aspetto ferino e istintivo, le Menadi si legano ai lati più oscuri e arcaici della natura dionisiaca, personificazioni della natura selvaggia, degli impulsi profondi e incontrollabili legati alla follia, il loro stesso nome deriva da un termine greco (mainás) legato al delirio.
Le Menadi ci appaiono vestite da una pelle di cerbiatto, di volpe o di pantera; le loro teste, come quella del loro dio, sono coronate d’edera ed esse si aggirano danzando per i boschi al suono di una musica sfrenata; quando l’eccitazione raggiunge il culmine, in preda all’esaltazione addentano un animale dilaniando le sue carni crude. Portano con sé il tirso, un bastone coperto d’edera con una pigna sulla punta, serpenti e spade.
La pantera, animale a cui la tradizione classica attribuisce l’attitudine ad un accoppiamento sfrenato, è animale consueto nei cortei dionisiaci. La presenza dell’animale maculato in contesti dionisiaci, o della sua sola pelliccia, va dunque letta come una sottolineatura di significato, dal momento che anche Satiri e satiresse non esitano ad abbandonarsi ogni momento alle gioie del sesso. L’essere associata a Dioniso costò alla pantera la reputazione: fatta eccezione per pochi ed elitari contesti religiosi, nella tradizione iconografica la sua pelliccia è divenuta simbolo di lussuria e di smodato piacere.
l culto di Dioniso si diffuse in tutta la Grecia e, inevitabilmente, anche a Roma. A seguito dell’inarrestabile processo di ellenizzazione che cambiò per sempre la cultura e il modo di vivere romani, Dioniso venne accolto e chiamato Bacco. L’austerità del senato romano nulla poté contro la sua seduzione e il tentativo di ostacolarne il culto, vietando la celebrazione dei Baccanali, si rivelò inutile.
Temi dionisiaci decoravano interi ambienti delle ricche domus pompeiane e, dal II secolo dopo Cristo, i temi bacchici divennero un tema ricorrente anche nella decorazione dei sarcofagi, dando vita a narrazioni complesse ed elaborate che, rivedute e corrette, migrarono di lì a poco in contesti di significato nuovo, lontanissimi da quelli di origine.
Quando i Cristiani dovettero elaborare un proprio linguaggio artistico il vino, la vite, l’euforia dionisiaca e il mondo gioioso che era appartenuto prima a Dioniso, poi a Bacco e al suo corteo, divennero le immagini simboliche più utilizzate dalla nuova religione monoteista. Così il vino divenne il sangue di Cristo, che peraltro definì se stesso “vite” e i suoi fedeli “tralci”.
L’associazione di Dioniso con i rituali funerari era peraltro già diffusa. C’è una tradizione orfica che racconta di un dio fatto a pezzi e “ricostruito” da Apollo. Già solo per questo, per questa somiglianza con un’altra autorevolissima divinità mediterranea, Osiride, per questo andare e venire dall’aldilà, Dioniso si presterebbe egregiamente a essere patrono dei riti funebri. La stessa etimologia del suo nome (“nato due volte”, allusivo in questo caso alla nascita dalla coscia paterna) è una promessa di rinascita. Ma c’è un sottile legame, tuttora oggetto di studio, che lega proprio il rituale del “bere insieme” al mondo dell’aldilà. Il vino – “dono di Dioniso” secondo Platone – è al centro del simposio, e induce a una trasformazione che aiuta il pensiero a svilupparsi e la dialettica a fiorire senza mai cedere all’ebbrezza, viatico perfetto per la trasformazione suprema dell’essere umano, un trapasso dolce come il nettare di Dioniso.
Non si può non concludere con colui che ha traghettato Dioniso e tutto il suo corteo nella modernità, Friedrich Nietzsche, che ci ricorda ciò che rischiamo di perdere se seguiamo esclusivamente la luce abbagliante del solare Apollo.
Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile o soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo.
(La nascita della tragedia, 1871, ed. Adelphi 1981, p. 25)