“Ipse enim solus verus est Deus”. Non c’è nemmeno bisogno di tradurre il lapidario latino del vescovo Ambrogio che, con un’argomentata e furente epistola all’imperatore Valentiniano, rispose alla commovente perorazione del prefetto Quinto Aurelio Simmaco:
“… vi supplico di lasciare in pace gli dèi patri, gli dèi indigeni. È giusto ammettere che quel che tutti gli uomini venerano è uno stesso e unico essere. Contempliamo gli stessi astri, ci sovrasta uno stesso cielo, uno solo è l’universo che ci circonda: che importa con quale dottrina ciascuno di noi cerca la verità? Non si può giungere per un’unica via a un segreto così profondo”.
Il punto del contendere era una statua della Vittoria, posta su un altare nella Curia nel 29 a.C., per celebrare la vittoria di Ottaviano ad Azio contro Marco Antonio e Cleopatra.
La fine è nota: la statua verrà rimossa. Del resto siamo nel 384, nel 391-92 gli editti di Teodosio mettono una pietra sopra all’intera questione: la religione cristiana è la religione ufficiale dell’impero. Si moltiplicano atti di intolleranza verso i pagani, vere e proprie persecuzioni con relativa distruzione di monumenti e immagini.
Che fine fanno gli dèi? Muoiono? È una domanda retorica, almeno per quel che riguarda le immagini. Come si sa infatti essi sopravvivono, si trasformano, si vestono alla moda, si mascherano da virtù e vizi, adombrano facoltà dell’uomo, ecc., secondo un ricco catalogo stilato nel Medioevo da autori di testi poetici, filosofici ed enciclopedici. Per finire spettacolarmente recuperati dal Rinascimento .
In principio c’è senza dubbio l’intreccio culturale fecondo tra il mondo classico e la tarda antichità, intreccio che diventa sempre più fitto e interrelato nel Medioevo. Alcuni nodi di questo intreccio segnano la via e il primo è l’astrologia: gli dèi sopravvivono anzitutto come pianeti. È infatti lo statuto “divino” attribuito agli astri che facilita questa osmosi, come ben descritto da Cicerone nel De natura deorum: “Una volta accertata la divinità del mondo, questa stessa divinità dovremo attribuirla alle stelle che traggono origine dalla parte più mobile e più pura dell’etere…. “. E, nel cielo dell’astrologia, i pianeti assumeranno i nomi degli dèi maggiori.
Il Cristianesimo – contrariamente a quello che si potrebbe pensare – nonostante alcune punte polemiche non rifiuta, anzi scende a compromessi vari. Eccone uno molto significativo: Carlo Magno aveva un sigillo con una testa di Giove Serapide. Nessuna soluzione di continuità, dunque.
Qualcuno che si oppone ci sarà, per la verità, Pico della Mirandola.
In una difesa di quel miraculum magnum che è l’uomo, aveva destituito gli astri di qualsiasi potere di influenza. Purtroppo si narra che la sua morte precoce sia stata precisamente prevista dagli astrologi. Pure coincidenze ? Sta di fatto che nonostante la ferrea opposizione ufficiale, sono ben note le consultazioni astrali dei vari pontefici del Cinquecento …
Un altro nodo è Ovidio. La “rissosa e sconsiderata brigata dell’Olimpo” (Seznec), aveva offerto materia a uno dei testi di maggior fortuna di tutti i tempi, Le Metamorfosi, che si chiudono con il famoso verbo al futuro “vivam”: vivrò.
Vivrà Ovidio, e con lui tutti gli dèi, i loro amori, le loro vittime. Sono innumerevoli i cicli “ovidiani” nelle dimore patrizie del Rinascimento. In quella che è forse la più nota di tutte, la Villa di Agostino Chigi alla Lungara, il cielo astrale del padrone di casa, affrescato da Baldassarre Peruzzi come un ciclo astrologico, viene arricchito da miti ovidiani nelle lunette di Sebastiano del Piombo. Gli dèi degli antichi non solo sopravvivono ma dimostrano una inesausta capacità di comunicare psicologie, stati d’animo, istinti e peculiarità umane.
E neanche questa è una novità: Ovidio si era già trovato un posto di tutto rispetto a partire dall’VIII secolo quando il vescovo di Orléans, Teodulfo, aveva sentenziato che nelle sue opere “tra mille frivolezze [come dargli torto?] si celano, sotto falso velo, tesori di verità”. Però è solo nel XII secolo che Ovidio si “moralizza”, si cristianizza e viene, per esempio, usato a edificazione di monache e badesse. In un manoscritto nella biblioteca di Monaco si legge questo passo:
“L’ordine delle badesse e l’intera loro compagnia Pallade sono e Venere e Vesta.
Sono Teti e Giunone e la vergine Diana dal triplice volto.
Bene si esprime la vostra osservanza nel culto di tale celeste potenza”.
L’intento è allegorico-morale e il contesto è quello di una controllata obbedienza.
Certo, suona davvero bizzarro, come bizzarra a tutta prima è la decorazione voluta da un’altra badessa, Giovanna da Piacenza, qualche secolo dopo per la sua Camera nel Monastero di San Paolo a Parma. Le decorazioni a tema mitologico ed emblematico, eseguite da Correggio tra 1518 e 1519, restano per larga parte enigmatiche. Quello che è assolutamente certo è che la Badessa, nel cui stemma sono tre mezze lune, si identificava con Diana (Giovanna-Giana-Diana).
Sotto la Diana-Giovanna raffigurata nel camino è incisa una sentenza attribuita a Diogene Laerzio “Ignem gladio ne fodias” (non fendere il fuoco con la spada). Un po’ meno obbediente delle sue consorelle di qualche secolo prima, la potente, colta, nonché ricchissima badessa ammonisce così l’autorità ecclesiastica che voleva ricondurre il suo monastero a maggiore sobrietà e allineamento spirituale.
C’è solo un dio di cui si tramanda la morte, Pan.
Racconta Plutarco che alcuni marinai, navigando nei pressi di Paxos, udirono una voce chiamare uno di loro, Thamus, pregandolo di annunciare, una volta giunto a Palodes, che “il Grande Pan è morto”. Una strana storia, di cui si interessò anche l’imperatore Tiberio. Si giunse alla conclusione che sì, era proprio lui, il figlio di Penelope ed Ermes ad essere morto, il grande ed enigmatico dio della terra e delle sue grotte, dei boschi e degli istinti. Ma su questo giallo, in realtà, non si è mai fatta piena luce …
Sta di fatto che gli istinti ricacciati indietro, uccisi, azzoppati, in una parola: rimossi, tornano in tutto il loro corrusco splendore tra fine ‘800 e fine ‘900 a occupare le menti degli uomini. Su di essi indagano a diverso titolo la filosofia, la medicina (al suo interno, la nascente psicanalisi), ma anche la storia dell’arte riveduta alla luce della memoria storica delle immagini degli dèi. Pan compreso.
Un artista meglio di tutti ha recuperato in una mossa sola il dio Pan e il senso profondo della natura che permea di sé il mondo di tutti gli dèi. E così Pan allieta le Driadi ancora oggi, e ancora oggi si dà al buon tempo, fischiando a un merlo. Arnold Böcklin gli ha dato un invidiabile modo di sopravvivere.