In un caldo giugno del 1934 – mentre il paese è concentrato sui mondiali di calcio che ospita e che lo vedrà campione per la prima volta – arriva a Roma Le Corbusier. L’architetto svizzero ritorna in Italia, dopo le esplorazioni giovanili, compiendo un lungo viaggio non solo per studiare l’architettura e il territorio italiano, ma soprattutto per intessere nuove e proficue relazioni professionali. La tappa più importante si trova proprio nella capitale: con l’occasione di allestire una mostra con i suoi progetti e tenere due conferenze, ha in animo, tramite l’intercessione di Bottai, di incontrare Mussolini per ottenere la progettazione della nuova città di Pontinia. Aspettando il fatidico incontro a Palazzo Venezia che non si terrà mai, Le Corbusier ha modo di visitare la città ed elaborare progetti per lo sviluppo della periferia a Nord o per la costruzione del Palazzo del Littorio dietro la basilica di Massenzio, quest’ultimo riprendendo le richieste del celebre concorso in atto. Tutte le proposte saranno respinte. E la candidatura di uno degli architetti più significativi del modernismo internazionale viene vista se non con imbarazzo, almeno con sospetto. Le città di fondazione – di cui Sabaudia rappresenta l’esempio più riuscito per la sua tangenza a modelli europei e il bilanciato disegno degli spazi urbani – devono evidentemente rimanere una questione nazionale.
La permanenza a Roma per quasi due settimane è frutto quindi di una forte motivazione che spinge Le Corbusier a sfruttare, senza successo, l’occasione di contribuire allo sviluppo della cultura urbanistica italiana. Non deve stupire questo atteggiamento se si considera la continua ossessione, da parte del celebre architetto, di elaborare un modello urbano ripetibile all’infinito. Un’esplosione esponenziale che si concretizza laddove è possibile agire; dove è presente non solo una committenza attenta e coraggiosa, ma semplicemente disposta ad accogliere le proposte progettuali. Per questa ragione la discriminante ideologica è una variabile irrilevante: oltre al regime fascista di Mussolini, Le Corbusier ricerca contatti con la Russia sovietica di Stalin, con la Francia collaborazionista di Pétain o con la Francia democratica di De Gaulle.
In effetti l’esito negativo di alcune committenze ben chiarisce la natura a-ideologica di questi lavori: il piano di Algeri rappresenta l’antitesi della visione ottocentesca di Pétain, mentre il palazzo dei Soviet non può soddisfare l’esigenza celebrativa che il regime richiede al suo monumento più importante. Con la fine della seconda guerra mondiale la necessità di ricostruire interi quartieri sarà il terreno fertile su cui realizzare la propria visione di città: grazie a Raoul Dautry le Unitè d’Habitation diventeranno realtà. E la crescita dei nuovi paesi extra-europei, desiderosi di “costruire” gli spazi del potere sarà alla base della chiamata di Jawaharlal Nehru per Chandigarh (similmente a quanto succede a Lucio Costa e Oscar Niemeyer per Brasilia e Luis Kahn per Dacca).
Perfino Wright, considerato da Zevi come modello di “architetto della democrazia”, invia, tramite il figlio, un messaggio a Mussolini nel 1935 durante il XIII Congresso Internazionale di Architettura a Roma nel quale propone al Duce il progetto di Broadacre City – l’utopia insediativa a bassa densità immaginata dal 1932 – come modello per la politica urbanistica del regime. A dimostrazione che la definizione di una committenza schierata e partigiana sia difficile da mantenere di fronte al comportamento reale da parte degli architetti che, al di là dei programmi e delle idee, rimangono sempre professionisti in cerca continua di interlocutori, con le loro contraddizioni e la loro spregiudicatezza.